Il Dizionario sui vari paesi della Sardegna, pubblicato nel 1832 dagli storici Angius e Casalis, presentando il paese di Aido Maggiore, rende noto che oltre la Chiesa parrocchiale di S. Maria delle Palme, nel paese erano presenti anche tre chiese filiali: “la prima di San Giorgio verso levante; la seconda di San Gavino, verso tramontana, ambe nell’estremità dell’abitato; la terza di Santa Croce presso la parrocchiale”.
Anche lo Stroffarello nel 1895 parla di tre chiese filiali e di tre chiese campestri. Ancora oggi si conserva la memoria storica circa l’ubicazione della chiesa di San Giorgio: sorgeva dove attualmente è situato l’edificio scolastico e il suo cortile, in cui si seppellivano i morti, come avveniva in tutte le chiese del passato. All’interno si seppellivamo gli appartenenti al clero, le persone particolarmente benemerite verso la chiesa o che disponevano di un consistente patrimonio. Nelle adiacenze venivano tumulate le altre persone. Detta pratica continuò, anche quando l’edificio andò in
rovina, fino al 1870, quando venne costruito il Cimitero Comunale ancora in uso.
Attualmente l’antica statua del Santo, rappresentato come un cavaliere armato a cavallo, è conservata dagli eredi di Gavino Farina. Si presenta annerita dal fumo delle numerose lampade, che venivano accese nella chiesa in suffragio dei morti. Mentre della chiesa di Santa Croce, che sorgeva presso la parrocchiale, non si ha memoria dell’ubicazione precisa. Probabilmente si trattava di una chiesa di dimensioni ridotte cioè un Oratorio, sede succursale della Confraternita di Santa Croce. Secondo l’esperto di storia locale, il defunto Michele Cambedda, doveva essere situata nel piazzale tra la parrocchia e le vicinanze della casa Mura. Nelle pareti della vecchia costruzione era inserita una pietra di trachite rosa avente scolpita la stella di Davide, ora reinserita nella ricostruzione della suddetta casa Mura.
Secondo il Gruppo Ricerche Storiche Parrocchiale, che si sta lodevolmente interessando di conoscere il passato storico di Aidomaggiore, tale stella farebbe pensare che la chiesetta di Santa Croce avrebbe avuto origine dalla trasformazione di una Sinagoga ebraica in luogo di culto cattolico, come si verificò in tanti luoghi in seguito all’ordine dei sovrani di Spagna, i cattolicissimi Ferdinando II° e Isabella di Castiglia, emanato nel 1492, di espulsione degli Ebrei dai loro regni se non avessero abbracciato la religione Cattolica. Sempre nella casa Mura è presente un’ulteriore pietra scolpita che parrebbe rappresentare un candelabro a 7 bracci stilizzato. Questa ipotesi sul luogo di culto ebraico è suggestiva e verosimile, da tenere in considerazione e cercare di verificare, se nel futuro si dovessero fare dei lavori di scavo nella piazza per poter trovare eventuali tracce di fondamenta della suddetta struttura.
Come detto prima, la chiesa di Santa Croce doveva costituire la sede secondaria della Confraternita. Infatti San Gavino restava in periferia, lontano dalla parrocchiale. Perciò era più comodo per i confratelli indossare a S. Croce la propria divisa e prendere le insegne per partecipare alle celebrazioni comunitarie. Un esempio del genere c’è a Scano Montiferro, qui ancora oggi la Confraternita delle
Anime ha, un po’ lontano dalla Parrocchia, il suo Oratorio ufficiale dove si tengono le riunioni e si espletano gli atti amministrativi. Mentre utilizzano un’altra chiesetta adiacente alla Parrocchiale per indossare la divisa e conservare le insegne processionarie della confraternita.
La sede ufficiale della Confraternita di Santa Croce è la chiesa San Gavino come leggiamo nella Bolla pontificia, ora conservata nell’Ufficio Parrocchiale, del 30 Aprile 1629, emanata da Papa Urbano VIII°, con il Cardinale Francesco Barberini come protettore. Tale Atto pontificio aggrega la nostra confraternita all’Arciconfraternita del Gonfalone di Roma e dei Flagellanti bianchi. Ancora oggi, i nostri confratelli di S. Croce indossano la sola tunica bianca. Questa confraternita cura le celebrazioni in onore della Santa Croce, della Settimana Santa e di Pasqua.
UBICAZIONE DELLA CHIESA
La chiesa di San Gavino è il monumento più antico del paese, e quindi il più importante, quello da stimare come il più caro, così da attirare l’attenzione, la cura, la conservazione da parte delle autorità e dei cittadini. Secondo una tradizione orale, molto ben radicata nell’animo della gente, questa chiesa era l’antica parrocchiale del paese e il santo titolare il suo patrono, forse sino alla fine del 1400 – primi del 1500, quando divenne chiesa parrocchiale Santa Maria delle Palme. Si spera di trovare qualche documentazione, che provi la veridicità di quanto suddetto.
Quando l’Angius visitò Aidomaggiore, San Gavino sorgeva all’estremità del paese, verso tramontana, cioè verso nord. Ora è circondata dalle tante case sorte nelle vicinanze e nella vallata sottostante.
L’edificio è costruito sopra un sito più elevato rispetto al territorio circostante. La sua impostazione è chiaramente romanica, con la parte absidale orientata verso est e la facciata verso ovest. L’attribuzione romanica è stata avvalorata dalla scoperta di una piccola apertura, che nel passato era stata murata e intonacata. La finestrella è delimitata ai lati da pietra di trachite rosa ben lavorata e la parte superiore è di pietra di basalto a forma d’arco ed ha la forma tipica dello stile romanico: allungata, stretta, a sezione trapezoidale, cioè più larga all’interno e più stretta all’esterno, quindi con
ampia strombatura ai lati. Questa apertura è a più di 2 metri da terra, nella zona del presbiterio, fra la porta secondaria e l’apertura per entrare in sagrestia.
CULTO A SAN GAVINO
Come mai una chiesa dedicata a San Gavino?
E’ il martire cavaliere di Porto Torres, ucciso in odio alla fede cristiana, nel 303 d.C. insieme ai compagni Proto e Gianuario, Patroni del Giudicato di Torres e della Provincia Ecclesiastica Turritana, che oggi ha per centro la Curia Arcivescovile di Sassari.
San Gavino è un santo molto venerato nella parte settentrionale della Sardegna, ma anche nel resto dell’isola, così che il mese della sua festa, il 25 ottobre, da Lui ha preso il nome dialettale di Santu Ainzu o Santu Aìni. Il suo culto potrebbe essere giunto nella nostra Comunità perché Aidomaggiore, essendo situata in una terra di confine fra il Giudicato d’Arborea e quello di Torres, avrebbe avuto periodi di incertezza riguardo alla sua appartenenza giuridica. Potrebbe esserci stata una alternanza di governo fra i due Giudicati, specialmente nel periodo in cui la stessa famiglia giudicale governava a Torres ed Arborea. Si hanno dati certi che intorno al 1015 il Giudice Gonario Comita de Lacon Gunale (logudorese) era anche re d’Arborea. Si rammenta che il nome del Giudice Gunnari o Gonario è la corruzione di Januario il martire amico di San Gavino.
D’altra parte il culto di San Gavino è presente anche a Borore, paese confinante con il nostro, appartenuto sempre al Giudicato di Torres. Lì esiste una chiesa campestre dedicata al nostro Santo e in suo onore è celebrata una delle feste importanti del paese. Probabilmente San Gavino veniva onorato anche nell’antico villaggio di Boele, paese distrutto nelle vicinanze di Tadasuni, ora sommerso dal lago. Nelle vicinanze di Boele è stata trovata una iscrizione con il nome di San Gavino. Iscrizione studiata e presentata dal Professore Giorgio Farris nell’anno 2000.
L’appartenenza temporanea di Aidomaggiore al Giudicato di Torres potrebbe spiegare il fatto che il Condaghe di Bonarcado non ne parli per niente, mentre fa riferimenti a Ruinas (Santa Barbara) e a Orogogo (Santa Maria). Ma è certo che il paese di Aidomaggiore in quel periodo già esistesse. Lo testimonia l’antichità della chiesa di San Gavino, ma anche la prima fonte scritta che, per ora, lo nomina nel 1388. E’ questo il trattato di pace fra Eleonora d’Arborea e Giovanni d’Aragona, stipulato ad Abbasanta il 12 gennaio 1388, dove si presentano contemporaneamente Ruinas e Aidomaggiore e quest’ultima ha 9 Giurati, due in più di Ruinas, segno che la nostra villa esistesse già da tempo e fosse già fiorente e importante.
STRUTTURA DELLA CHIESA
La struttura della chiesa è di piccole dimensioni: lunga mt 13,50 larga mt 5,20 e alta mt 6,30. Il tetto rifatto, è formato da capriate, che sostengono la copertura in tavolato, ricoperto da tegole curve.
Il pavimento è realizzato in cotto. Le pareti sono spoglie di ornamentazioni, ricoperte di ruvido intonaco, che si spera di rimuovere al più presto. Come acquasantiera è stata adottata una urna cineraria. Nella parete destra è appesa la croce e le scale usate nella funzione della Deposizione del Cristo morto.
Nella parte opposta c’è l’altare di S. Antonio Abate, la cui festa è celebrata in questa chiesa, con il tradizionale fuoco de “Sas Tuvas” acceso nel piazzale. Qui si celebra anche la festa di San Sebastiano.
Uno scalino separa la navata dal presbiterio, delimitato dal bell’arco a tutto sesto, realizzato in trachite rosa a vista. L’arco poggia su due piedritti realizzati in basalto a vista. Un piccolo spazio fra questi piedritti e la parete di fondo, forma come un piccolissimo coro rettangolare, col tetto più basso rispetto a quello della chiesa. Mi piace pensare che originariamente non ci fosse questo coro rettangolare, ma un altro di forma semicircolare, coperto a semi-catino, così come in tutte le chiese romaniche.
Nella parete di fondo si aprono due finestre rettangolari, fra le due vi è addossato un retablo del 700, che fino al 1965 si trovava nella chiesa di Santa Maria delle Grazie e nascondeva la bellissima nicchia in trachite scolpita del primo “600. Probabilmente il retablo non era stato realizzato neanche per Santa Maria, dato che c’era già una bella nicchia più antica, ma per la chiesa parrocchiale di Aidomaggiore e poi portato nella chiesa campestre. E’ certo che fu lavorato in onore della Madonna, perché in alto nella trabeazione ci sono le iniziali mariane. Il retablo aveva urgentissima necessità di
restauro, avendo perduto i colori originali, perché per tanti anni era stato abbandonato alle intemperie, finché Don Niola lo recuperò e lo salvò, facendolo portare in questa Chiesa, con la speranza che prima o poi si riuscisse a restaurarlo e a valorizzarlo come avrebbe meritato. Si è riusciti a farlo in modo eccellente nel 2007 dal laboratorio di restauro Maart di Zeddiani con la supervisione della Sopraintendenza ai beni artistici, grazie al finanziamento di 7000 euro dalla Provincia di Oristano e 1745 euro dalla Parrocchia. Nel centro del retablo c’è una apertura ad arco, che ora contiene una tela ad olio raffigurante San Gavino, vestito da centurione romano su un cavallo bianco, che sta per entrare a Porto Torres per predicarvi il Vangelo.
Il quadro fu dipinto dal pittore ghilarzese Lello Fadda e nel 1979 regalato da Michele Cambedda, che fu anche il primo Priore della ricostituita Confraternita. L’antica statua di San Gavino è andata perduta. Per un certo periodo fu conservata dalla famiglia di Masia Salvatore e Ziulu Francesca, che ne curava il legato. Come di consueto, il Santo era rappresentato a cavallo. Sotto il retablo è stata predisposta la sede del celebrante e ai lati, per tutta la parete, sono stati posti i sedili. Il tutto realizzato con le antiche lastre in basalto, che ricoprivano un tempo il pavimento. Anche la mensa è ricavata da un grande lastrone di basalto. Questa nuova mensa è stata consacrata da Mons. Giovanni Pes il 25 ottobre 1982, dedicandola a San Gavino e deponendovi le reliquie dei santi martiri Donato e Marcello.
Agli angoli del presbiterio c’è la sede del Tabernacolo e alla parte opposta quella per la statua della Madonna di Fatima, qui venerata. I due piedistalli sono ricavati da pietre basaltiche e antiche macine.
Alla sinistra del presbiterio si apre un arco gotico aragonese realizzato in trachite rosa a vista, con i relativi piedritti sui quali poggia. L’arco ha gli spigoli sagomati a toro. Su questo arco è addossata una costruzione più recente che dà origine ad una cappella laterale, dove nell’ultimo restauro è stata fatta una nicchia per esporvi la statua dell’Ecce Homo. E’ probabile che la cappella del Cristo, di cui parlano antichi registri parrocchiali, sia riferito a questa.
Fino al 1953 la statua dell’ Ecce Homo era conservata dentro una cassapanca ed esposta, con uno speciale rituale eseguito da confratelli e prioresse, solo il giovedì santo e il venerdì mattina, per essere portato nella processione notturna del giovedì santo, nella quale veniva, e viene tuttora accompagnato dagli accorati canti del coro maschile a cuntzertu.
Don Cabiddu, in quell’anno, fece in modo che la statua si presentasse eretta e rigida, facendola appoggiare ad un sostegno in ferro per essere sempre esposta alla venerazione e devozione dei fedeli. Prima, per essere portata in processione, veniva posta in una portantina, sostenuta da cuscini, poggiata ad una grossa colonna e con le gambe a penzoloni.
Questa statua è un capolavoro di straordinaria fattura artistica. Sembra che ne esistano solo altre due rassomiglianti: una a Tortolì e l’altra ad Alghero nella Chiesa di
S. Francesco. Quest’opera risale alla fine del 1500 o primi del 1600 e sarebbe di scuola napoletana.
Le braccia e le giunture sono snodate, ricoperte in pelle. Questo fa pensare che originariamente servisse per il rito de “ s’Iscravamentu”. Il volto ha una bellezza straordinaria, lo sguardo, rivolto verso il basso, sembra che fissi intensamente chi lo guarda, quasi richiamo silenzioso, verso chi ha di fronte, a comprendere e condividere il suo dolore. Dalla bocca socchiusa si intravede la dentatura. Una folta capigliatura di capelli naturali copre la testa, coronata di spine. Le mani sono legate da una catena ai polsi e poggiano su una colonna, che sta davanti. La pelle è rigata dai colpi di flagello e quindi insanguinata. La devozione e la venerazione del popolo in suo onore è straordinaria. Nel passato era invocato con speciali celebrazioni nei lunghi periodi di siccità.
La statua aveva urgente bisogno di restauro. E’ stato fatto nel 1995, con la spesa di lire 4.000.000, offerti da Don Tonino in occasione del 25° di prima messa, per opera della restauratrice Albai Maria di Cagliari.
Come continuazione della cappella del Cristo, c’è un ampio locale, che arriva fino alla facciata, con apertura secondaria in asse con la porta principale. Questo locale serve come sagrestia e sede della Confraternita di Santa Croce.
ESTERNO DELLA CHIESA
La facciata della chiesa è sviluppata in altezza e meno in larghezza. L’apertura d’ingresso principale è ad arco a tutto sesto. Al di sopra c’è una finestra rotonda, una croce in pietra all’apice centrale.
Nell’estremità destra spicca il grazioso campanile a vela, con apertura ad arco per contenere l’unica campana.
Solo la facciata è intonacata, le altre pareti sono nella muratura tipica della nostra zona, cioè in pietre di basalto non lavorate e stuccate tutto intorno. Questa chiesa ha avuto bisogno di lavori di restauro, perché chiusa al culto dal 1971. I lavori iniziarono il 25 luglio 1977 per opera di Don Niola. La spesa fu affrontata in gran parte con le offerte della gente, di circa £. 6.500.000, somma raccolta in due tempi. Molti offrirono materiale vario e giornate lavorative. Fu rifatto il tetto, l’intonaco interno e della facciata, il pavimento in cotto, la zona presbiteriale con la mensa e la sede presidenziale al centro.